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Parlare della giacca Sukajan, più comunemente giacca souvenir, è toccare la corda più ardente della storia contemporanea giapponese, l’Occupazione Americana. Un tessuto è l’intreccio di fibre tessili, il 1900 offre un telaio così complesso e articolato, destrutturato nelle cuciture di un capo cult. Una fantasia, su cartamodello dell’americana giacca Letterman, a loro volta evoluzione di quelle da aviatore della Prima e Seconda Guerra Mondiale, sulla conclusione degli anni ’40, all’indomani di un duro decennio, quando l’unico magazine destinato agli individui di sesso maschile era Danshi Senka, principalmente focalizzato su tagli e pattern di natura tradizionale. Protagonisti celebri fashion designer, grandi registi, malandrini, prostitute ed emarginati. Uno spaccato brutale, le devastanti ceneri di Hiroshima e Nagasaki, spazzate via da stracci di paracadute cuciti insieme, a quattro mani, da due nazioni. Un po’ ironica e misteriosa, indifferente, rivela il suo lato istrionico, tra pregiate iconografie giapponesi e motivi nativo americani, ricamati su sete dai colori brillanti, coordinate nel caratteristico double face. Conquista rapidamente e non passa molto dallo sfilare vergine sugli sferraglianti litorali metallici dei porti navali di Yokosuka, accompagnata da stranieri prelevati come supposte sotto la guida del discusso generale Douglas MacArthur, ad identificarsi nel contesto sottoculturale, inaugurando il ventennio di gloria degli anni ’60-’70. Una chioma lunghissima e nera, della quale andiamo ad afferrare un ciuffetto di capelli policromatico, sintetico e perfetto, applicato da mani maschili, smaltate, vecchie, e dita troppo oscure e disobbedienti per avere un nome. Bolle d’aria e affollate cortine di nebbia, che hanno fatto del made in Japan sinonimo di qualità a livello mondiale. La spontaneità è linfa e dinamismo della Sukajan, ne rappresenta la natura più autentica. Nascere oggetto di un desiderio istintivo, seppur raffinato, e ascendere a simbolo.

L’IBRIDO TRANSCULTURALE

Lei aveva gli occhi a mandorla, lui era circonciso. Le piaceva dal 1900, ma una famiglia tradizionale di stampo imperiale non avrebbe mai accettato uno straniero consumista. Si rincontrarono quarantacinque anni dopo, riconoscendosi nella fitta nebbia della cappella a fungo più famosa del mondo. La stuprò, sotto gli occhi di bambini a tre teste e ragni a una zampa, tra kimono e bomber MA-1, nacque un ibrido transculturale, e la cronaca nera si trasformò presto in un romanzo rosa. Un bellissimo transgender, la pelle morbida, arricchita da tatuaggi raffinati, setosa e cattiva. Lo chiamarono Sukajan, dalla città di Yokosuka, rilevante arsenale della flotta giapponese, già principale base americana, e jyunpa, giacca/felpa. É il 1945, agli albori dell’Occupazione Americana, supportata dalle potenze alleate vincitrici, uno stato in disarmo, di polvere e sottomissione. Tuttavia “Stuprare e uccidere e bruciare tutti con i lanciafiamme” (W.D. Marx, Ametora, Basic Book, New York 2015, p.10), seguendo l’amara previsione del premio nobel Kenzaburo Oe, non fu l’unica prerogativa dei battaglioni occidentali, famosi anche per i chewing gum e la cioccolata. In profonda crisi economica, rapidamente, si sviluppò un’intera industria intorno ai principali porti navali, dedita a soddisfare le esigenze straniere. I primi modelli sperimentali di Sukajan, in nylon riciclato dai paracaduti e decorazioni applicate su bomber incogniti, vengono presto sostituiti da raffinati coprispalle in seta, iconografie ricercate e slogan, che apportano alla giacca la denominazione “souvenir”, un ricordo del soldato oltreoceano. Secondo Kosho e Co., azienda giapponese produttrice del 95% dei modelli originali di Sukajan nell’immediato dopo guerra, un impiegato della compagnia produsse una giacca su modello di un uniforme da baseball, arricchita con ricami tradizionali. I motivi: draghi, geishe, carpe, ciliegi, mappe geografiche, iconografie militari e aquile dei Nativi Americani. Un intreccio iconografico destinato al soldato turista, corrispondente all’artigiano giapponese, un’esperienza comune a due popoli antitetici. La Sukajan arriva presto ad essere motivo di interesse comune tra i forestieri in missione, e le case produttrici iniziarono a stilare liste di nomi in vista della produzione di articoli personalizzati ancora prima del loro sbarco. La passione giapponese per il baseball è chiara, dobbiamo considerare la sconvolgente ma necessaria apertura di uno stato dal passato isolazionista.

IL PERIODO MEIJI

Durante i 256 anni precedenti all’inizio del periodo Meiji, 1868, il governo militare di Tokugawa attuò una politica tesa a rinforzare il Sakoku, ovvero un regime di stampo isolazionista, che terminò solo nel 1854, con la richiesta di apertura da parte del Commodoro Matther Perry, al comando della marina statunitense. Rapporti di potere sbilanciati e benefici diseguali, a favore dei traffici occidentali, portarono il Giappone ad una nuova chiusura solo quattro anni dopo. É nel 1868, quando i samurai presero il controllo del governo, che giungiamo al periodo Meiji, detto anche Restaurazione Meiji. Un’epoca nella quale il Giappone si distinse come potenza a livello mondiale, grazie alla riforma socio-economica attuata secondo schemi occidentali. Il modello europeo diventò punto di riferimento centrale, dal taglio dei capelli alle uniformi, imperatore incluso. Un momento significativo e rivoluzionario, l’ariete di quel fenomeno che oggi conosciamo con il nome di Ametora, la millimetrica imitazione giapponese dell’archetipo americano. L’infatuazione, fomentata da fenomeni sociali sempre più rapidi, ispira nel 1920 la nascita del movimento Mobo moga (ragazzo/a moderno), che vede in Kensuke Ishizu un leader, ed il proprio cuore nelle strade di Ginza, tuttora centro pulsante di mondanità della città di Tokyo. Mentre per la classe operaia l’adozione dell’abito occidentale rappresentava motivo di praticità, in special modo successivamente al terremoto del 1923, per i mobo era un gioco di stile: bob e abiti di seta per lei, capelli lunghi e pantaloni a zampa di elefante per lui. Questa prima interazione tra mondi così diversi generò scontri e crepature sociali, fino alla capitolazione del movimento Mobo nel 1930, mediante restrizioni nazionali. Il Giappone prevedeva un solo stile di abbigliamento maschile, seppur occidentalizzato, ancora tradizionale, funzionale ad un determinato scopo. Un codice fermamente condiviso e caldeggiato dal Governo, pre e post bellico, seppur tuttavia dal 1940 fossero state abolite leggi di carattere limitativo. Tra le indigenze economiche e la carenza di materiale dell’immediato dopoguerra lo stile occidentale venne adottato in primo luogo da personaggi limitrofi alla comunità. Le Pan Pan girl, prostitute da strada al servizio dei soldati americani, definite dallo scrittore Kosuke Mabuchi trend setter del tempo (Cfr. M. Kosuke, Zoku, Itachi no sengoshi (The postwar history of the tribes)Sanseido, Tokyo 1989), e gruppi di giovani delinquenti quali i gurentai (“banda di criminali”), in completi a tre pezzi e gli apure (dalla parola francese après guerre, “dopoguerra”), in camicie hawaiane, cinture di nylon, scarpe con la suola di gomma, occhiali da sole modello aviatore ispirati al Generale MacArthur e capelli in stile Pompadour, già Regent (riizento). Così la spinta ad una modernizzazione di stampo estero, accettata nei primi del Novecento in toni contenuti dall’élite reggente, che vedeva il proprio baluardo nel Rokumeikan (Il Rokumeikan era un grande edificio preposto all’alloggio degli ospiti stranieri, commissionato dal ministro degli esteri Inoue Kaoru. Completato nel 1883, divenne presto celebre per feste e balli, introducendo molti giapponesi di alto rango allo stile di vita occidentale. Ne seguì l’identificazione come controverso simbolo dell’occidentalizzazione del periodo Meiji), si sposta diametralmente negli anni dell’occupazione ai ceti sociali più bassi. Nello stesso periodo si muove e forma Kensuke Ishizu, mobo alle origini, adesso uomo maturo, fondatore della compagnia VAN Jacket, pilastro del magazine Men’s Club, colui che per primo scardinò negli anni ’50 il calcificato divieto di mostrare interessi estetici legati all’abbigliamento da parte di un uomo. Tale premessa storica è fondamentale alla trattazione della Sukajan, seppure la sua natura sia il risultato di un rapporto interrazziale creativo e redditizio, il suo futuro è parte della medesima storia. Ishizu, assecondò l’ossessione dei teenager, da lui per primo condivisa, per lo stile Ivy League, già Preppy look, aibii per i giovani giapponesi.

A volte chiamato modello universitario, dal momento che molti affiliati sono studenti o universitari. Disteso senza pieghe. Le spalle sono strette ed estremamente naturali, senza cuscinetti o con pochissima imbottitura. Tre o quattro bottoni sulla giacca; non ci sono versioni a due bottoni. I pantaloni sono sottili e leggermente affusolati, generalmente privi di pieghe. All’avanguardia, ma l’obiettivo è intensamente conservatore: l’esatto contrario del modello hollywoodiano altrettanto popolare. Questi due stili costituiscono i due poli estremi dell’attuale moda americana. In America, il modello Ivy League è urbano, spesso descritto come gli abiti indossati su Madison Avenue. (W.D. Marx, Ametora, Basic Book, New York 2015, p.10)

Era stato scelto e veicolato da Ishizu, tramite la VAN Jacket, presentando il primo caso di ready to wear. Per la classe dirigente rappresentò un simbolo di disobbedienza e perdita di valori, il tutto siglato nel 1950 nel celebre crimine minore denominato dalla stampa “Oh, Mistake Incident” (W.D. Marx, Ametora, Basic Book, New York 2015, p.25) (“Oh, Mistake Incident” è l’esclamazione pronunciata dal diciannovenne Hiroyuki Yamagiwa di fronte alle telecamere nel momento dell’arresto. Chauffeur alla Nihon University, fece irruzione nella macchina di un collega, armato di un coltello, ferendolo e appropiandosi del suo stipendio. Seguirono tre giorni di spese folli in compagnia della fidanzata tra le boutique più raffinate di Ginza. La terribile pronuncia inglese di “Oh, Mistake Incident”, l’abbigliamento Ivy League ed il nome George, tatuato in un inglese grammaticalmente scorretto, trasformarono un crimine di furto minore in un caso nazionale). Tuttavia Ishizu chiedeva l’impossibile ad una generazione che aveva solo una vaga idea dei canoni di stile americano, per la maggior parte ancora fedele al tradizionale Gakuran, quando qualsiasi personale iniziativa veniva interpretata come segno di delinquenza e amoralità, per lo più in un momento di crisi nazionale. Solo un decennio più tardi la rivoluzione giovanile straccerà l’uniforme, inaugurando al preludio delle Olimpiadi del 1964 “la strada dei figli indegni” (W.D. Marx, Ametora, Basic Book, New York 2015, introduzione) (“La strada dei figli indegni” è un soprannome dato dalla stampa alla strada Miyuki-dōri, al centro del quartiere di Ginza, per la consistente presenza di giovani giapponesi in abiti occidentali, la Tribù Miyuki (miyuki-zoku), secondo i dettami dello stile Ivy League).

LA GUERRA DEL VIETNAM

É durante gli anni ’50 che la Sukajan si differenzia e militarizza. Lontana dal porto di Yokosuka e dalle strade cittadine, dove si ripresenterà in modo significativo sul finire degli anni ’60. La giacca souvenir rimane un oggetto ricercato anche tra i soldati americani impegnati nei conflitti in Corea (1950-53) e Vietnam (1955-73), periodo durante il quale il Giappone si dimostrò primo e maggiore fornitore di beni dell’esercito statunitense, arrivando alla fine dell’occupazione nel 1952 con il Trattato di San Francisco (1951). Turbata da guerre spietate la Sukajan assume nuovi connotati stilistici, differenziandosi con tessuti più scuri e funzionali rispetto all’originaria e appariscente seta, mantiene la caratteristica iconografia transculturale, associando alla funzione commemorativa dichiarazioni controverse, slogan antiguerra e informazioni relative al percorso del singolo soldato, data la natura celebrativa del capo. Sebbene nata come indumento da indossare fuori servizio o souvenir per terzi, acquista valore militare nella significativa relazione tra moda e guerra. La storica di moda Jennifer Craik, analizzando tale rapporto, asserisce l’allur unico dell’uniforme al gioco constante tra simbolismo diretto e codici informali di sovversione. Comune è imbattersi in Sukajan trapuntate dalla celebre formula “Quando morirò andrò in Paradiso perché ho servito il mio tempo all’Inferno” (J. Criak, “The cultural politics of the uniform, Fashion Theory The Journal of Dress Body & Culture”, in Fashion Theory, 7(2), p.134).

É sempre stato sorprendente per me che un oggetto così semplice come un pezzo di stoffa rattoppato potesse avere così tanto significato, ma sono arrivato a credere che questi simboli siano i segni che ci legano alle nostre radici. Ognuna è una breve lezione; una rappresentazione primaria dell’eredità a cui appartiene il soldato che indossa quel cerotto. (Generale Gordon Sullivan) (E. Kramer, “New vintage – new history? The sukajan (souvenir jacket) and its fashionable reproduction”, in International Journal of Fashion Studies, 7(1), p.38)

STILE YANKEE E STILE IVY LEAGUE

Sul finire dei turbolenti anni ’60 appare per la prima volta nelle strade di Tokyo, come ready to wear, associata a sentimenti anticonformisti e criminali. Masayuki Yamazaki, fondatore del brand Cream Soda, è il primo ad interessarsi ad una larga fetta di popolazione precedentemente ignorata. Kensuke Ishizu, imprenditore e promotore dello stile Ivy League, aveva rivolto la propria attenzione ad una limitata fascia di consumatori, tutti i giovani in grado di interessarsi ed acquistare un prodotto dalla qualità elevata. Ancora nel 1970 solo una ristretta cerchia di adolescenti giapponesi aveva familiarità con il concetto di lifestyle sponsorizzato dai brand sui magazine. Meno del 20% degli individui di sesso maschile frequentava un’università, con una percentuale femminile notevolmente più bassa. Tuttavia il boom economico apre le strade a nuove fasce di mercato: ragazzi di umili origini e giovani criminali. Yamazaki, che mosse i primi passi nella moda avvicinandosi al movimento Mambo, un gruppo di delinquenti in pantaloni neri affusolati a vita alta, cavalca l’onda offrendo una direzione ad un audience vergine, per la prima volta attento a beni di seconda necessità. I ragazzi giapponesi provenienti dalla classe operaia trovarono risposta nel sogno di una vita spericolata, opposta all’elevata perfezione dello stile Ivy League, considerato “effeminato e artificioso” (S. Ikuya, Kamikaze BikerParody and Anomy in Affluent Japan, University of Chicago Press 1998, p.158), all’insegna “di un vero spettacolo graffiato da deliberata volgarità” (S. Ikuya, Kamikaze BikerParody and Anomy in Affluent Japan, University of Chicago Press 1998, p.187). Accanto ai veterani di guerra e gli oppositori, ancora nelle proprie uniformi e stampe camouflage, abbracciarono lo stile del cattivo ragazzo americano, sfociando in una seconda sottocultura, lo stile Yankee. Gli yankees, spesso associati alle famigerate bande di motociclisti giapponesi conosciute come Bōsōzoku (La Tribù Spericolata), aderirono alla ribellione punk, venendo etichettati allo stesso modo in cui l’élite costiera americana percepiva gli abitanti dell’entroterra. Come sottolinea lo storico e giornalista Tim Newark in Camouflage, spesso lo streetwear attinge all’abbigliamento militare, data la sua natura aggressiva, utilitaria e anti-fashion (T. Newark, Camouflage,Thames and Hudson, Londra 2007, p.170). Yamazaki tradusse i movimenti Gurentai Apure in un unico codice di abbigliamento con l’intenzione di rendere il Giappone “un po’ più rock’n’roll” (W.D. Marx, Ametora, Basic Book, New York 2015, p.125), in parte influenzato dall’ascesa dello stile Rockabilly e cantanti come Mickey Curtis e Masaaki Hirao, cloni di Elvis Presley. L’intenzione di Yamazaki, riassunta nel personale motto “tutta la moda cool è moda delinquente” (W.D. Marx, Ametora, Basic Book, New York 2015, p.126), trovò coronamento ancora una volta nella città costiera di Yokosuka. Qui gruppi di ragazzi giapponesi vagabondavano come meticci a briglia sciolta intorno alla grande base militare statunitense, dove avevano modo di raccogliere consigli di stile dai soldati americani e afro-americani più rudi e disinvolti. Si formò una sottocultura parallela, Sukaman (Yokosuka Mambo), comunque di stampo criminale e legata a codici di abbigliamento provenienti dalla strada, in aperto contrasto con lo stile Ivy League, che sostituì definitivamente lo Schott Perfecto di Marlon Brando con la Sukajan. “Nella banda i valori centrali del mondo normale – sobrietà, ambizione, conformismo, ecc. – erano sostituiti dai loro opposti: edonismo, sfida all’autorità, ricerca di cose eccitanti” (D. Hebdige, Sottocultura, il significato dello stile, Meltemi, Roma 2017, p.112). Il capo raggiunse la fama nazionale nel 1961, grazie al film Buta to gunkan (Battelships and Pigs; Porci, geishe e marinai) dalla regia di Shōhei Imamura, che chiarificò il solido legame della giacca con l’ambiente malavitoso a livello nazionale. La stessa Yakuza, rimase affascinata dal capospalla, ormai simbolo di ribellione, patriottismo e delittuosità. I sukaman, membri fedeli al movimento, si aggiravano per la grande città portuale in scintillanti Sukajan, acquistate a negozi rivolti prevalentemente ad una clientela occidentale, magliette nere, jeans neri attillati e taglio alla Regent. Furono i primi ad indossare il coprispalla come Colonial Chic, incarnando il più autentico volto degli yankees, ovvero una rivisitazione dello stile delinquenziale americano, sotto le note di cantanti soul afro-americani come James Brown. Il conflitto tra stile Ivy League e stile Yankee andò ad inasprirsi per tutto il ventennio degli anni ’60-’70.

Buta to gunkan (Battelships and Pigs; Porci, geishe e marinai), Shōhei Imamura (1961)

Yamazaki arrivò ad affermare di leggere ogni mese Men’s Club “per fare l’esatto opposto di ciò che c’era scritto” (W.D. Marx, Ametora, Basic Book, New York 2015, p.129). Nel 1970 lo stile Yankee fece il suo ingresso definitivo a Tokyo, spostando il proprio centro da Yokusa alla capitale, una scossa elettrica che pervase la città. Yamazaki continuò a disegnarne le linee guida, sempre più influenzato dalle sottoculture britanniche, Rockabilly Mods. Complici le amicizie internazionali, significativa quella con Malcom Mclaren e Vivienne Westood, che portarono la Sukajan ad essere sostituita da giacche di pelle in stile biker, con accenti più rock. Mentre John Lennon e gli Aerosmith amavano fare shopping a Cream Soda, nel 1990 il comico statunitense Dave Barry, durante un viaggio in Giappone, scrisse:

La prima cosa che abbiamo notato sono stati i Bad Ass Greaser. Questi erano uomini giovani, forse una dozzina di loro, profondamente immersi nel look americano criminale e giovanile anni ’50 […] Non sembravano percepire che avrebbero potuto apparire un po’ sciocchi, come una banda di Hell’s Angels che cerca di terrorizzare una piccola città mentre indossa un tutù. (W.D. Marx, Ametora, Basic Book, New York 2015, p.147)

Osservando con occhio critico la diffusione dello stile americano in Giappone e la formazione del primo esempio di ready to wear, possiamo affermare che lo stile Sukaman sfida l’ipotesi ampiamente diffusa della moda giapponese quale mera copia di un archetipo americano preimpostato. Se Kensuke Ishizu offre una copia fedele dello stile Ivy Ligue, perfezionato decennio dopo decennio, arrivando a rappresentare un modello di riferimento per gli stessi occidentali, Yamazaki, cerca di plasmare i desideri e gli impulsi reconditi di una generazione, fino a farli esplodere nelle strade. Cream Soda attinge all’influenze estere in funzione di una corrente nata da contaminazioni reciproche e contraddittore; non esercita nessun controllo sul risultato finale, producendo un articolo predisposto ad associazioni personali, al contrario VAN Jacket consegna al cliente un look già pronto, dal quale non è possibile allontanarsi. La Sukajan, nei suoi anni di gloria, si innalza a baluardo simbolo del giovane comune cittadino giapponese, animato da sentimenti patriottici e da una schizofrenica e graffiante rabbia, tipica delle grandi repressioni culminanti in brandelli di morte e schizzi di rinascita.

L’ORIZZONTE INTERNAZIONALE

Il controverso mito della Sukajan conquistò velocemente fama globale. Nel 1964 i Beatles celebrarono il loro tour britannico lanciando giacche commemorative in raso nero con un ricamo bianco sulla schiena. Poco dopo, Mick Jagger fu fotografato con indosso una giacca Sukajan, e nel 1982 la band vendeva giacche souvenir in raso. Tra le più accattivanti reinterpretazioni spicca l’iconico bomber vestito dal Diavolo stesso in Lucifer Rising di Kennenth Anger (1974). Film, video musicali e l’avvento di Internet hanno contribuito all’ascesa della Sukajan su scala mondiale. La sua storia si evolve sul mercato parimenti alle sottoculture europee, emerse dalla classe operaia tra il 1950-’80, “quella combinazione enfatica di abbigliamento, ballo, gergo, musica, ecc” (D. Hebdige, Sottocultura, il significato dello stile, Meltemi Editore, Roma 2017, p.144), stigmatizzate nell’immaginario predominante in una rosa di simboli mercificati. Accanto alla cultura punk, venduta per spilloni e creste, e gli skinhead, riassunti in anfibi, bretelle e capelli rasati, la Sukajan conserva intatto l’apparato visivo, mentre i media internazionali ne enfatizzano la natura diabolica. Compare nella serie drammatica giapponese Majisuka Gakuen (Majisuka Academy), vestita da studenti delinquenti e in film quali Metal Gear (1987), Drive (2011) e Ocean’s 8 (2018). Drive, dalla regia di Nicolas Winding Refn, inoltre testimonia la nascita dell’eroe contemporaneo e di un nuovo militarismo a lui concerne. Il Military Chic, privo delle responsabilità dell’originario, al quale si richiama nel design, esteticamente vincente e accattivante, tale è l’uomo che lo indossa, un guerriero atletico e attraente, sovversivo, incidentalmente violento. Come sottolinea Grant McCracken, l’associazione di un prodotto ad una celebrità o un determinato carattere, si trasferisce al consumatore (G. McCracken, “Who is the celebrity endorser? Cultural foundations of the endorsement process” in Journal of Consumer Research 1989, 16(3) p.316). Diffusa su larga scala, è arma di stile sulle spalle di molti, contraddistingue un più o meno ricercato ready to wear, sforzo del personaggio comune, allo stesso tempo motivo di diversificazione e raggruppamento. Così mentre le originali Sukajan restano sogno e meta di ogni collezionista, brand come Tailor Toyo Schott N.Y.C. hanno offerto brillanti reinterpretazioni, fedeli nella produzione quanto nell’essenza storica del capo, con l’obiettivo di offrire un articolo straordinario. La connessione tra design e patrimonio artistico sono la chiave vincente, asserito il legame tra moda e tempo, la ciclicità, e il boom del mercato vintage nel primo decennio degli anni 2000, quando evolve agli e-commerce. Dal 2009 al 2015 assistiamo ad un moltiplicarsi di piattaforme, fino al 2020, momento in cui l’emergenza climatica e l’allarme sostenibilità ne hanno ulteriormente intensificato i profitti. Parlando di originali o reinterpretazioni la Sukajan sposa il vintage, ma allo stesso tempo non passa inosservata agli occhi dei più rinomati Creative Director. La convergenza artistica e commerciale conferisce al prodotto immortalità estetica e un largo margine interpretativo abbracciato da brand internazionali: Gucci (FW 2016), SL (SS 2016)LV (SS 2016), per citarne alcuni. Di conseguenza l’evoluzione a capo cult nell’immaginario collettivo tra cinema e moda, primari nella trasmissione di messaggi su larga scala, seguendo le parole di Banet-Weiser “come aree della nostra vita che sono state storicamente considerate non commerciali e autentiche – vale a dire, religione, creatività, politica, il sé – sono diventate di recente spazi di mercato” (S. Banet-Weiser, The most beautiful girl in the world: Beauty pageants and national identity, University of California Press, California 1999, p.14), tesi sostenuta un decennio prima dal politicamente più radicato Klein testimoniando il sopravvento dei brand su ideologie politiche, filosofiche e religiose (Cfr. N. Klein, No Logo, Rizzoli (BUR), Segrate 2010). Così l’ambivalenza della Sukajan si esprime nel contesto contemporaneo, nella dicotomia tra vintage e ready to wear, entrambi performanti, ma ancora una volta incapace di esprimersi in una sola natura, confermandosi bellissima e passiva, scenica e casual, flessibile, desiderata da collezionisti e amanti casuali. É lontana dall’autorità storico-artistica esercitata dal chiodo in pelle di Marlon Brando, anch’esso icona di cinema, moda e musica, o dalle Dr. Martens ai piedi delle sottoculture inglesi, quasi fosse timida nello svelarsi autonomamente. Come dimostra la collaborazione tra Schott Perfecto e il brand sud-coreano Brownbreath, tradotta in un’edizione limitata di un prodotto ibrido tra MA-1 Sukajan, con iconografie e statment celebrativi del mitico squadrone aereo Flying Tigers (Tigri Volanti), inviati dagli Stati Uniti in aiuto della Cina nella Seconda guerra sino-giapponese (1937-1945). Parallelamente in India trova fortuna la Maha Tour Jacket, una declinazione fedele nell’etica commemorativa del viaggio (tour) ma priva di ogni connotato militare. Un ulteriore esempio di come collezionismo, collaborazioni e reinterpretazioni abbiano portato la giacca Sukajan ad arginare l’esperienza ciclica, preservando la propria storia.

Lucifer Rising, Kenneth Anger (1974)

Delineando la storia della Sukajan definiamo le origini di un semplice capo di abbigliamento, esplorandone le diramazioni, tra l’occidentalizzazione di un popolo, scontri stilistici e movimenti sottoculturali, arrivando ad identificare la giacca come unicum storico. Nasce spontaneamente, si contraddistingue per originalità e presenza scenica, esercitando un fascino strisciante che l’artista Philippe Burty definì nel 1973 con il termine “Giapponismo”. Vibra collateralmente al ready to wear giapponese, lo influenza, pur mantenendosi indipendete. É chiaro come nel susseguirsi degli anni la versatilità abbia reso la Sukajan oggetto di associazioni multiple, un accavallarsi di periodi e ruoli diversi, in grado di sciogliere una giacca sartoriale in un groviglio di fili. La storia oscura e la dinamica semplicità estetica, diretta come una fotografia, è da un lato torbida e dall’altro immediata. L’ambigua dolcezza e l’indifferenza, caratteristiche di una fluidità esclusiva, corre dai bassifondi giapponesi alla settimana della moda in un arco di tempo che ricopre ottant’anni dalla sua nascita. Saggi primari nell’intenzione di discernere in blocchi lampanti capitoli concatenati attraverso “inquietudini relative alla classe e alla sessuallità, le tensioni tra conformismo e devianza, fra famiglia e scuola, fra lavoro e tempo libero, venivano congelate in una forma che era allo stesso tempo visibile e opaca […]” (D. Hebdige, Sottocultura, il significato dello stile, Meltemi, Roma 2017, p.112). La storia della Sukajan si inserisce in un contesto di integrazione e diffusione di stili, anima di un gergo privilegiato e quotidiano, che traduce nel proprio io un racconto indipendente, una realtà dissonante alla distruzione, una fantasia spontanea che tocca frequenze parallele alla cultura dominante, come una striatura isolata lungo tutto il Novecento.

di GHERARDO ULIVI